Notoletta dannunzista: La via del “melagrano” di Mario Nardicchia


venerdì 06 settembre 2013

Notoletta dannunzista
La via del ‘melagrano’
Gabriele d’Annunzio era attratto, sin dai tempi liceali al Collegio ‘Cicognini’ di Prato, dalla mitologia greca e latina, dalle storie di dei e di eroi dell’antichità raccontate nelle opere degli autori più celebri della letteratura classica. In più, nelle escursioni giovanili per l’entroterra pescarese, munito del famoso ‘taccuino’, certamente annotava sensazioni, situazioni, personaggi, odori e sapori, scorci suggestivi e tradizioni popolari, modi di dire, elementi interessanti di patronimica e di toponomastica che sarebbero tornati utili per la sua vasta produzione letteraria. Così, se il ‘poeta ricciutino’ arrivò a Cepagatti come lasciano intendere riscontri descrittivi [, < brigante ‘il Moro’>, , , l’esclusiva vista su la Maiella così mirabilmente fotografata: (tempio, suonatore ed organo realmente esistiti all’epoca) in “Fra’ Lucerta”, o anche la poesia “I pastori” annoverante il ‘tratturo’ (…erbal fiume silente) –probabilmente quello che attraversava, e attraversa tuttora, la frazione di Villa Reia di Cepagatti, proprio nella zona di confluenza del fiume Nora con l’Aterno-Pescara– allora si sarà anche chiesto l’etimo di questa località, intuendo senz’altro che il nome di Cepagatti è legato al termine latino “pagus”, ovvero a quella organizzazione d’origine ‘sannitica’ che designa una , deputata –cioè- alla produzione, conservazione, distribuzione delle derrate alimentari agli ‘urbani’ della ‘civitas’ (in questo caso: ‘Teate’=Chieti) e entro cui sorgevano tempietti votivi agli dei, a protezione dei raccolti. Da qui il termine “pagano”, ovvero abitante del ‘pagus’ e rispettoso degli dei in esso venerati, stesso vocabolo insito nel nome della cittadina aquilana, Paganica, patria del suo amico-conterraneo Edoardo Scarfoglio; d’altronde il ‘vate’ aveva ben presenti gli altri ‘pagi’ d’Abruzzo, specie quelli della Valle del Sagittario ove ambienterà alcune sue opere: ‘pagus koukoulon’ (Cocullo, patria dei ‘serpari’); ‘pagus bletifulus’ (Scanno). Se così è, val la pena partire da una data certa dell’antichità romana che sicuramente non era sfuggita a D’Annunzio: il 4 aprile dell’anno 204 a.Cr., registrata sui Libri Sibillini conservati sotto il tempio di Giove Capitolino. Questa data segna l’arrivo, a Roma, della pietra conica nera (meteorite) dalla città di Pessinunte (Regione della Frigia, nell’Anatolia centrale, oggi Turchia) e di due nuove divinità (forse per ingraziarsi la benevolenza di Annibale ormai alle porte di Roma, in piena Seconda Guerra Punica): la dea “Cibele” –‘Magna Mater’ per i latini, “Rhea” per la ‘Koiné’, lingua ellenistica ‘franca’ in uso nel Mediterraneo- e suo figlio-paredro (=seduto accanto) “Attis” dal sangue del quale –narra la leggenda a seguito di evirazione– a contatto con la terra sarebbero nati due alberi da frutto: il ‘melograno’ e il ‘mandorlo’, e un fiore: la ‘viola mammola’. Orbene, se queste due antichissime divinità anatoliche introdotte da noi, a protezione dell’abbondanza dei raccolti della terra, sono a contorno del termine ‘pagus’, l’etimologia del toponimo ‘Cepagatti’ potrebbe essere formato da =’Pagus di Cibele e di Attis’, il che spiegherebbe anche ‘Villa Rea’(città di Rhea, donde “horrea”=granaio, divenuta poi Villa Reia, frazione di Cepagatti attraversata –come detto in precedenza- dal ‘tratturo’ dannunziano), il termine dialettale ‘mereanàte’= nata da ‘mea Rhea’, o anche ‘mmànnele’= gr. ‘amygdala’ d’origine semitica che rimanda al nome frigio di ‘Cibelis’. Delle due divinità ne parlano Tito Livio (59 a.Cr.-17 d.Cr.) in “Ab Urbe Condita” XXIX,10 e lo stesso Ovidio (43 a.Cr.-17 d.Cr.) ne “I Fasti”, opera celebrativa dei riti religiosi. Nell’antica ‘Teate’ , inoltre, si praticava il rito del ‘taurobolium’, il sacrificio di un toro il cui sangue veniva versato sulle statue di Cibele e Attis. Se la linguistica e la toponomastica ci devono soccorrere in mancanza di tracce epigrafiche d’ogni sorta, si può convenire che i riti sacrificali in epoca remota, a Cepagatti, avvenivano in località Pian dell’Ara (=Altare). Però il culto per le due divinità anatoliche dovette durare poco, perché la scelta dell’Imperatore Augusto d’inviare in Galilea, ai tempi di Gesù Cristo, centurioni e militi della ‘Coorte Italica’ nutriti ed istruiti militarmente nei pressi dei ‘pagus’, fece sì che, al ritorno in patria, questi raccontassero e propagandassero il Verbo di Dio fatto Uomo finito in Croce sul Golgota. Gabriele d’Annunzio cita più volte nelle sue opere Cibele , Rhea la Magna Mater; inoltre il melograno, i fiori di mandorlo, le viole inondano alcuni suoi scritti. C’è di più: assunse il ‘melagrano’ per un ciclo di tre romanzi sul tema della ‘bellezza’ (cfr. il “Libro segreto”: ) e, ancora: ; in effetti ne scrisse uno solo: “Il Fuoco” (1900); più in là, dice di sé: . A proposito della Magna Mater, nel medesimo “Libro segreto” (1935, a firma dell’eteronimo Angelo Cocles), si coglie questa espressione: . Sin da giovinetto, comunque, nella cronaca ‘Mandarina’ apparsa su ‘Capitan Fracassa’ il 22 giugno 1884 a proposito del ‘giapponismo’ imperante in Europa e nella Roma umbertina, il ‘vate-giornalista’ così descrive un personaggio dell’affollato nippo-salotto della marchesa Aurora Canale: . Quindi, come riferisce Annamaria Andreoli nel suo bellissimo ‘libro-album’ (‘albook’) edito da La Nuova Italia –Firenze- 1987, il ‘vate’ si fece ricamare su tutta la biancheria i tendaggi, le coperte, i drappeggi nella sua Villa del Vittoriale a Gardone Riviera (BS), quel frutto della ‘melagrana’ che rappresentava la fecondità della sua penna di letterato e di artista; dei ‘rami di fiori di mandorlo’ è piena la sua commedia “Le Vergini delle Rocce” (1895), auspicio di rinascita latina, chiaramente ispirata al capolavoro leonardesco al Louvre di Parigi; di ‘viole’ –come è risaputo– fece infiorare le vie di Fiume al suo ingresso il 12 settembre 1919 per riannettere il Carnaro all’Italia, alla maniera dell’antica Atene, culla della ‘democrazia’.
Mario Nardicchia